Come un uovo che diventa un’omelette

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Ci sono alcuni eventi, nella vita di una persona, che hanno un impatto diverso dagli altri. In quei momenti ci si racconta di aver scoperto qualcosa, di essere stati profondamente cambiati, come se quegli eventi avessero buttato giù una parete nel cervello che non si può ricostruire più – o almeno non senza sapere di averlo deliberatamente fatto per nascondere quello che c’è dietro. Non devono essere per forza eventi sensazionali. Può essere la puntura di una vespa, una frase in un libro, la litigata di due persone che non sanno di essere ascoltate. Questi eventi non gettano davvero luce su un percorso che era in qualche modo determinato, fatale. E però una persona sistema le proprie memorie in un modo per cui, questi momenti insignificanti, prendono il significato di pietre miliari di un cambiamento irreversibile. Come un uovo che diventa un’omelette. Nella mia vita, uno di quegli eventi irreversibili fu quando mi convinsi d’essermi preso il colera al posto di Ilya Metchnikoff.

Quando entrai nella stanza, Ilya stava finendo di trangugiare del liquido opaco da un bicchiere che poi appoggiò fragorosamente sul tavolo. “Eccoti finalmente”, esordì, “sei in ritardo”. “In ritardo per cosa?” Era arzillo. “Lascia stare malchick, mi hai risparmiato i tuoi lamenti. Siediti lì e prendi appunti su cosa succede”. Malchick è il termine russo per ‘ragazzo’. E però, siccome Ilya si prendeva quella confidenza soltanto con me, ormai tutti, dalla segretaria, alla donna delle pulizie, ai ricercatori in visita, pensavano fosse il mio nome di battesimo. “Ilya, cos’hai fatto?” “Togliti quella faccia, malchick. Niente di che”. Un brutto presentimento aveva iniziato a preoccuparmi: “Cosa c’era dentro quel bicchiere, Ilya?” “Zitto. Senti anche tu questo rumore?” “Che rumore? Cosa c’era dentro il bicchiere?” Mi fece cenno di rimanere in silenzio mentre tendeva l’orecchio verso qualcosa che non riuscivo a capire. Poi, indicandosi la pancia, compiaciuto annunciò: “Borbotta.”

 Avevo conosciuto Ilya quando mi trovavo a Parigi da circa un anno. A Parigi era tutto grande, tutto vario. Le strade erano più ampie, come anche e piazze, i portoni, gli ingressi, le librerie. Le persone avevano volti strani che si contraevano nei modi più diversi, le loro voci si flettevano con ritmi sconosciuti, i profumi delle strade erano più intensi. Tutto mi confondeva. Ora tutto mi pareva buono, ora tutto mi disgustava. Destra o sinistra? Entrecote o zuppa di carote? Ero tutti i giorni messo di fronte a scelte che non sapevo prendere. Più erano semplici più mi parevano complicate. In laboratorio mi facevo cogliere da attacchi d’ansia. Li sentivo arrivare dalla punta delle dita che diventavano insensibili, mi riempivano il corpo di domande angosciose – cosa ci faccio qui? Perché tutti quanti sembrano sapere cosa stanno facendo? E così via. Con la lingua francese facevo fatica. Volevo che le persone intorno a me pensassero che ero intelligente, forse perché non mi ci sentivo più. Tentavo così impacciatamente di dimostrarlo, ma con l’unico risultato di sembrare supponente – quindi poco intelligente. Me ne accorgevo, mi imbarazzavo, ma non riuscivo a correggermi. Tutti intorno a me avevano la loro direzione, il loro scopo. Io no. Loro si chiudevano la mattina nel loro laboratorio e ci restavano fino a sera. E così facevo anche io. Ma mentre io vaneggiavo tra i miei pensieri senza riuscire a concentrarmi, loro si prestavano al proprio servizio con zelo. Anzi, con amore. E avevano dipinti sulle loro facce, costantemente, sorrisi compiaciuti. Mi accorgevo della loro pacata esaltazione quando, parlando della loro ricerca, buttavano certe parole in mezzo alle altre con cautela, fingendo indifferenza, e però la piega del loro labbro, l’intonazione della loro voce, la torsione del collo, tradivano tutto il loro orgoglio. Quel che di loro mi affascinava e mi infastidiva insieme era che fuori dalle loro piante, fuori dai batteri, fuori dai fuchi, dai virus, pareva che nulla esistesse. Il loro mondo era disabitato. O almeno, non era abitato dagli stessi esseri che abitavano il mio. Loro stessi si toglievano, non c’erano. La loro sottrazione cozzava con il costante pensiero di me stesso che riempiva la mia vita e che a quel punto iniziai a vedere in tutta la sua narcisistica autoreferenzialità. Non capivo: loro avevano già trovato il loro senso ed erano finalmente in pace? O al contrario non se ne preoccupavano affatto? Dovevo essere orgoglioso di me, o vergognarmene?

“Scrivi, malchick! Scrivi così ‘Pancia inizia a borbottare alle 09.25 am’”
“Hai avvertito Pasteur?”, chiesi preoccupato.
“Come se avvertirlo cambiasse qualcosa”.
“Avresti dovuto chiedergli se era d’accordo, innanzitutto”
“E’ un uomo troppo burocratico, non c’è bisogno di farlo preoccupare per nulla. Poi gli si alza la pressione e gli fa male al cuore. Hai sentito?”
“Sentito cosa, Ilya?”
“Lo stomaco. C’è una battaglia in corso, qui! Scrivi: ‘Reflusso 9.30 am’”

Io volevo soltanto essere visto da altri esseri umani, avevo bisogno dei loro sguardi, delle loro parole, volevo guardarli ed essere guardato. Era tanto sbagliato? Tutto quello di cui loro avevano bisogno invece era il loro, di occhio, per guardare dentro un microscopio. Avrebbero potuto guardare la struttura molecolare di una pannocchia per alcune decadi, ed essere felici. Io no. Forse avrei dovuto ricercare successi tangibili, mi dicevo. Magari diventare un politico, cambiare qualche legge! O forse un medico, sconfiggere raffreddori e chiudere ferite! O magari un insegnante, modellare altri uomini come ero stato modellato io! Avrei potuto fare tante cose. O forse no. In fondo venivo da una gelateria delle dolomiti e mi ero iscritto all’università solo perché la mia maestra aveva confuso il mio impegno frustrato per qualcosa di grande. “Vostro figlio scrive temi raffinati, dovrebbe andare all’università” aveva detto ai miei genitori. L’aura di prestigio che circondava quella comprensibile quanto misteriosa parola, “università”, spinse tutti quanti a convincermi che era la scelta giusta, che avrei fatto grandi cose. Del resto, del mondo sapevamo tutti poco. A diciotto anni gli unici miei interessi erano Alice – un’amica con cui facevo lunghe passeggiate nei boschi – e gli animali. Anche scrivere, a dire il vero, che per me era come disegnare le persone usando le parole. Sfortunatamente, un giorno mostrai i miei quaderni ad Alice, che esclamò delusa “Ma qui non c’era nessuna storia!”. Aveva ragione, non c’era nessuna storia lì. Che cretinata. Mi sentii stupido. “E allora andiamo a cercare storie!” risposi spavaldo lanciando il quaderno giù nei boschi e prendendola per mano. Lei rise. Io smisi di scrivere, e poi mi iscrissi alla facoltà di zoologia.

“Io vorrei sapere come ti è saltato in mente. Devi restare idratato, bevi questa, forza”
Gli passai un bicchier d’acqua e mi resi conto che la stanza era molto calda. Troppo calda. Il cuore mi batteva veloce “Apro la finestra”
“Ma è già aperta! Malchick, che ti prende?”
“Niente, forse devo smetterla di bere caffè”
“Bravo malchick, il caffè non ti fa bene. Ah, comunque Mr Pettenkofer si è bevuto il colera qualche giorno fa e non gli è successo niente.”
“E con questo? E’ una questione d’orgoglio? Non vuoi essere da meno?”
Mi allentai la cravatta, mi tolsi la giacca, invertii la posizione delle gambe.
“Baggianate, malchick. Lo faccio perché è necessario. Mi passeresti il mio yogurt, per favore?”
“Non è necessario affatto. Potresti MORIRE, Ilya!” Al pensiero mi colse un sospiro. E insieme uno strizzone.
“Ebbene? La mia vita non conta poi così tanto, malchick. Passami il mio yogurt!”
Gli passai uno dei barattoli di vetro che aveva disposto ordinati sul tavolino a cui ero seduto. Lo guardò con esaltazione esclamando qualcosa di simile a “Ecco i miei alleati!”
“Come?” chiesi perplesso asciugandomi del sudore freddo dalle tempie.
“Niente malchick, non ce l’avevo con te. Scrivi così: ‘Yogurt ore 9.35 am’”.

Dopo un anno circa all’Istituto Pasteur ero immerso nella più totale frustrazione. Forse sarei stato più felice dando da mangiare gelati alla frutta, mi ripetevo in quel periodo. In questa fase di autoafflizione fui presentato ad Ilya. “Avete interessi di ricerca simili”, aveva detto il mio allora relatore, chiaramente per sbarazzarsi di me. Voglio dire, non ero veramente stimolato da nulla, allora. E lui lo sapeva. Però Ilya mostrò una sorta di simpatia nei miei confronti, e iniziammo a lavorare allo stesso programma. Pranzavamo insieme tutti i giorni. Di me non gli interessava molto. Pareva si preoccupasse soltanto di quanto e come mangiavo, di come mi vestivo, di come rompevo l’armonia con il resto della natura. Era un uomo ruvido, ma un uomo buono. Mi rimproverava e mi guidava, era mio mentore e mio amico. Non sapevo nulla della sua vita, e però mi impossessai dei suoi occhi, dei dettagli su cui si soffermavano, della rete di concetti attraverso cui dava senso ad ogni cosa. Avevamo discussioni lunghissime che nascevano da argomenti insignificanti come il colore della mia cravatta. “Ha un colore troppo acceso”, disse per esempio un giorno “cozza con l’esterno”. Anche a proposito dei più piccoli dettagli costruiva teorizzazioni rigorosissime, e trovava continui parallelismi con i suoi argomenti preferiti: i batteri, e le donne. Con le nostre discussioni davamo voce ai dettagli silenziosi della vita, facevamo loro giustizia. Quell’uomo eccentrico era come il riparo di un balcone sotto la pioggia incessante. Sapevo che non sarebbe potuto durare in eterno, che prima o poi avrei dovuto muovermi, affrontare la pioggia, trovare il mio senso. Non mi aspettavo, però, che lo strappo sarebbe avvenuto in modo così netto. Avvenne quel giorno del 1892: Parigi era infestata dal colera, e Ilya se ne era appena bevuto un bicchiere.

“In fondo, cosa c’è di così speciale nella mia vita, o nella tua?”. Rivolse il mento alla finestra per indirizzare la mia attenzione “Guarda quel piccione! Quel piccione conta quanto te e quanto me. Sì, non conosce la storia né la matematica, ma sa cosa vuol dire volare. Se ti infili dell’aria sotto le ascelle, tu non voli. Lui sì”.
Solo pensare a delle ascelle mi diede un conato. “Cosa c’entra adesso questo discorso…” la mia voce era spezzata.
“Intendo che non sai cosa significa avere dei tagli nel collo che ti fanno respirare sott’acqua, che non sai come far cambiare il colore della tua pelle per mimetizzarti, o dare la scossa, o farti ricrescere la coda. E però quante cose meravigliose credi di poter fare con la tua mente!”
“Sì, ma noi sappiamo come gli animali si comportano, e possiamo comportarci di conseguenza. Con la razionalità possiamo conoscere e gestire…”
“E chi ti dice che sia un pregio e non un cruccio? Al pesce piccolo non gliene frega poi tanto se il pesce grosso lo mangia. O almeno non tanto da costruire muraglie per evitarlo e poi tanto morire lo stesso. Il pesce accetta il suo destino…”
“Ilya, basta” sbottai.
Si irritò “Basta a chi? Attento a come mi parli, malchick!”
Un brutto sapore mi saliva per lo stomaco, il caldo aumentava.
“Scusami, non sto bene”, risposi “tutti i suoni mi infastidiscono.”
“Sei proprio strano eh. Io invece sto già molto meglio” disse ritornando concentrato sul suo stomaco “è mai possibile?”
“CI VEDO SFUOCATO!” esclamai barcollando di fronte al tavolo. Sentivo lo sguardo perplesso di Ilya su di me. E però non gli vedevo muovere un muscolo.
“NON CI VEDO!” urlai.
“Smettila, malchick. Scrivi così: ‘Miglioramento ore 9.50 am’”.
Fu la sua totale indifferenza a farmi perdere definitivamente la calma. Fui risucchiato dal panico e di qui in poi ricordo soltanto di aver lanciato un disperato “E’ IL COLERA DANNAZIONE!”. Dopodichè svenni franando brutalmente sul tavolo, quello ricoperto di yogurt ben ordinati che trascinai giù sul pavimento insieme a me. Quando riaprii gli occhi, Ilya in piedi affianco a me mi sovrastava mangiando il suo yogurt con un biascichio composto, e strusciando il cucchiaio sul bordo del barattolo preparava con eleganza il boccone successivo. “Sei proprio un soggetto, malchick”, rise da lassù.

Come ho detto, non c’è niente che improvvisamente fa luce su una sorta di predeterminazione. Niente è destinato. E però certe volte decidiamo di trovare un certo senso, di rendere certi eventi speciali. E proprio lì, sdraiato per terra, gambe e braccia scoordinate, lo yogurt colante sulla faccia, un dolore lancinante alla fronte e alla schiena, tremante, stordito, sbeffeggiato, praticamente un idiota, proprio lì, decisi: quell’estrema umiliazione era la pietra miliare di un cambiamento irreversibile. Era l’epifania del mio valore. Non sono certo di quanto conscia fosse la catena delle mie rivelazioni in quel preciso istante. Però, sono sicuro che da quel momento in poi, una nuova connessione tra le mie memorie ha cambiato il mio comportamento e le mie scelte. Questa è, più o meno, la catena di pensieri di cui parlo: Ilya era un eroe, certo. Lui era diverso rispetto a tutti quanti loro. Lui toglieva se stesso, sì, ma in un modo talmente esagerato da ributtare tutto se stesso dentro la sua ricerca. Che era fatta proprio della sua carne, proprio del suo stomaco, del suo sangue – avvelenato in tutti i modi. E però , quel che scoprii, era che anche io sapevo togliermi da me stesso. Ma io lo facevo per infilare qualcun altro dentro di me e farlo vivere. Quel giorno Ilya aveva bevuto il colera, ma io ne avevo sperimentato i sintomi. Questo era perché la mera vista, anzi, la mera immaginazione del dolore, della malinconia, dell’eccitazione, producevano reali effetti fisici in me. Il mio problema non era il narcisismo, ma l’immaginazione. Mioddio, aveva così senso. Dovevo uscire da quell’Istituto. Rapido, e per non tornare più.

Published by silvialazzaris

Italian writer based in the UK.

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