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Inchiesta pubblicata sul Corriere della Sera, inserto Innovazione, il 25.10.2019
Nella geopolitica della quarta rivoluzione industriale, l’Italia sembra avere sulla carta tutti i numeri per piazzarsi bene. Le ricerche italiane nell’ambito della robotica sono un catalizzatore mondiale. I nostri studi risultano, tra il 2014 e il 2018, primi al mondo in media per il conteggio delle citazioni per pubblicazione. Un numero elevato di citazioni possiede un valore considerevole in accademia, perché significa che una certa pubblicazione è stata fondamentale nello sviluppo di altre ricerche straniere. Nell’ambito dell’Intelligenza artificiale, l’Italia è leggermente più debole, o meglio, meno forte: si posiziona sesta al mondo e terza in Europa dopo Germania e Regno Unito. Le università di Genova (dove si trova l’Istituto Italiano di Tecnologia, Iit), Pisa (con l’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna), Bologna, Roma, Napoli, e i politecnici di Milano e Torino rappresentano i centri di ricerca più importanti. “Intorno a questi baccelli di successo si sta sviluppando una bella realtà di start up e piccole e medie imprese” commenta Bruno Siciliano, professore di robotica all’Università di Napoli Federico II, che aggiunge: “Quando si parla di fuga di cervelli, si cade nel luogo comune di pensare che quelli che sono rimasti in Italia siano i più fessi, che non è affatto vero”.
Siamo forti anche nell’applicazione. Negli ultimi anni, l’International Federation of Robotics (Ifr) ha inserito regolarmente l’Italia tra i primi dieci paesi più automatizzati al mondo. Nell’ultimo report sulla robotica dell’Ifr, basato sui dati 2018, l’Italia era quarta in Europa per numero di robot ogni 10.000 lavoratori, dopo Germania, Svezia e Danimarca. L’approvazione con lo scorso governo del Decreto Crescita ha anche reintrodotto strategie per incoraggiare le imprese a investire in macchinari avanzati: i cosiddetti “superammortamenti” e “iperammortamenti”. Funzionano a grdi linee così: se un’impresa compra un macchinario tecnologico d’avanguardia, lo stato “fingerà” che sia costato di più, ad esempio il 30% in più del suo prezzo. L’utile lordo dell’impresa virtualmente calerà, e con questo anche le tasse che l’impresa deve pagare. Questi strumenti hanno già consentito, nel 2017 e 2018, un boom di vendite di macchinari robotici. Nelle fabbriche italiane, molti robot già lavorano al fianco degli operatori umani. “Non dobbiamo però immaginarci umanoidi completi, come li vediamo nella ricerca o in alcune dimostrazioni. L’uso più immediato di questi sistemi è quello di utilizzare alcune parti per fare diverse cose” spiega Giorgio Metta, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Robot dissemblati, con il cervello negli arti, aiutano gli uomini nella catena di montaggio, nel trasporto delle merci. I droni si occupano di ispezionare gli impianti industriali, specialmente in luoghi tossici o inaccessibili per l’uomo. Armature bioniche aumentano la forza degli operatori umani per diminuire la fatica in mansioni fisicamente debilitanti. Senza di noi, non fanno nulla. La fabbrica è “smart” perché è intelligente usare robot per rendere più tollerabile e produttivo il lavoro, non perché i robot siano intelligenti.
Anche la medicina è “aumentata” da queste tecnologie. Nel 2017, l’Italia eseguiva 18.000 interventi di chirurgia robotica, e nel giugno 2018 arrivava a possedere cto robot chirurgici Da Vinci, coprendo ogni regione eccetto il Molise. Il Da Vinci ha quattro bracci. Con uno tiene una telecamera che genera immagini tridimensionali, moltiplicando fino a dieci volte la visione umana. Con gli altri tre opera. Il chirurgo cyborg, manovrando un joystick, governa i bracci in zone anatomiche inaccessibili alla mano umana, trasformando operazioni complesse in interventi di routine, come molta chirurgia urologica. Anche qui, però, l’uomo conta più dello strumento. “Questi robot sono come una macchina di formula uno. Dipende tutto da chi la guida”, sottolinea Siciliano.
La ricerca sulle protesi è tra gli scenari di ricerca più avanzati. Sia Pisa che Genova hanno progettato mani robotiche ora in fase di sperimentazione. La “Myki” dell’Istituto di Biorobotica di Pisa, e la “Hannes” dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Entrambi gli istituti sarebbero riusciti a tagliare significativamente i costi di produzione, scendendo ai 10 o 12 mila euro per arto. La direzione della ricerca sta andando anche verso un maggiore controllo del movimento e la possibilità di riacquistare, tramite un canale del sistema periferico, la sensazione del tatto.
E però, “noi possiamo fare tutte queste ricerche molto belle, ma alla fine chi lavora in zone periferiche o socialmente più difficili, riceverà dalla Asl una protesi che potrebbe essere quella di trent’anni fa, perché è quella che ti rimborsa il sistema sanitario,” protesta Maria Chiara Carrozza, professoressa di BioIngegneria all’Istituto di Pisa ed ex ministro dell’Istruzione. Metta parla di gatto che si morde la coda. “Per produrre grossi numeri devi avere gli utilizzatori, però se non scendi con il prezzo gli utilizzatori rimangono pochi. Come automobili, telefoni e televisori, anche i robot avranno bisogno di un tempo di diffusione sul mercato, che determinerà se si possono abbattere i costi e abbassare i prezzi”.
Riguardo l’influenza dell’automazione sul futuro del lavoro si è detto tutto e il contrario di tutto. Ricercatori dalle più prestigiose istituzioni mondiali si sono espressi e poi smentiti, si sono macellati i risultati a vicenda scontrandosi sulle metodologie, e a noi resta un “paciugo” desolante. Un recente sondaggio Demos-Coop ha rivelato che il timore dei robot, in Italia, cresce con l’età. A prescindere dalle opinioni, dobbiamo fare un confronto fondamentale: nel 1900, l’agricoltura impiegava oltre il 40% della forza lavoro. Oggi ne impiega il 2%. Se anche la portata dell’automazione sarà vasta proprio come è accaduto per la Seconda Rivoluzione Industriale, questo non significa che l’uomo diventerà ridondante. Ha più senso invece discutere come potrebbero cambiare le politiche del lavoro. Tiziana Bocchi, segretaria confederale Uil, suggerisce che “la formazione continua dei dipendenti sta diventando un elemento centrale nel rapporto imprese-sindacato, per operare a difesa dell’occupazione e a sostegno dell’impresa”.
Bocchi, poi, boccia il suggerimento di Bill Gates di tassare i robot: si deve pensare a un processo molto più ampio di politiche industriali e fiscali. Si dovrà pensare allo sviluppo del terziario, a una redistribuzione del reddito, a un investimento nell’economia reale, e poi, successivamente, a un ridimensionamento degli orari di lavoro. “La mia impressione – commenta Metta – è che con i tempi di sviluppo della tecnologia, la popolazione invecchi prima che la tecnologia possa sostituire i lavori mancanti. Il rischio concreto è che non avremo in tempo tutti i robot di cui abbiamo bisogno”.
Silvia Lazzaris
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