Pubblicato sul Corriere della Sera, inserto Innovazione, il 26/04/2019
Una mattina a Tokyo mi sono fermata per la strada per scattare una foto ad un tombino decorato. Un’anziana signora giapponese mi si è avvicinata gesticolando. Mi indicava una sigaretta intrappolata nella scanalatura della decorazione. Rovinava la mia fotografia, andava rimossa. Senza neanche darmi il tempo di dire nulla, si è chinata accanto a me per raccogliere a mani nude il mozzicone da terra. Poi mi ha augurato qualcosa in giapponese e veloce se n’è andata, lasciandomi di stucco.
L’“omotenashi” è forse l’aspetto più eccezionale della capitale giapponese. Una parola per noi difficile da definire, che significa ospitalità nella sua forma più pura: scambiarsi gentilezze senza pretendere nulla in cambio, essere servizievoli senza diventare servili. L’abitante medio edochiano, una volta avvicinato per chiedere informazioni, ti scorterà fino al binario della metropolitana, di fronte alla porta del bagno, dentro al ristorante chiedendo se c’è un tavolo libero per te. Poi continuerà ad inchinarsi profondamente fino a scomparire dietro l’angolo.
Il rispetto per l’altro e per lo spazio pubblico (le strade sono immacolate anche se non compare un cestino della spazzatura per chilometri) sono frutto di un nazionalismo controllato e di un’educazione rigidissima impartita fin dalle scuole elementari, in cui l’etica è una materia insegnata alla stregua della matematica e delle scienze. Sulle strade della città più grande (e più ricca) del mondo cala la quiete, rotta dallo sporadico vociare dei turisti. Anche accalcarsi in metropolitana, incollati come sardine, è bizzarro perché preciso, ordinato, taciturno. Tutti sono attenti a non rompere il “fuinki”: letteralmente “l’atmosfera”, qualcosa di speciale e impercettibile nell’aria. La dedizione all’armonia spiega lo stile di abbigliamento ricercato ma sobrio, i gesti delicati, le melodie e i cinguettii elettronici che risuonano in ogni stazione della metropolitana.
I motti dell’ “oitsuke, oikose” (“raggiungi, supera”) e del “wakon yosai” (“spirito giapponese, sapere occidentale”) introdotti a fine Ottocento, sono evidenti ancora oggi nel modo in cui Tokyo si occidentalizza meglio degli occidentali, conservando però la sua identità e il suo ritmo. Accanto ai grattacieli e alla foschia dei neon di Shibuya si scorge un guazzabuglio di piccoli edifici dall’architettura incoerente, antichi templi, reti fitte di cavi elettrici. Camerieri robot, treni su monorotaia superveloci e musei giganteschi d’arte digitale sono in paradossale armonia con una lentezza umanissima, per cui si dedica parecchio tempo alla cura di un giardino, alla preparazione di un pasto o di un té, alla confezione di un pacchetto regalo. Non è solo il sovrappopolamento a generare code impressionanti alle casse e fuori dai ristoranti. È la tradizionale dedizione, che ruba tempo anche quando non c’è tempo, ma partorisce qualità.
Forse la contraddizione più grande di Tokyo è che, se anche ha tutte le carte per essere una città globale, rimane etnicamente e culturalmente omogenea. Più del 90% dei suoi 13 milioni di abitanti è giapponese. Non si parla l’inglese, e se non fosse per Google Translate sarebbe difficile riuscire a leggere menù o chiedere indicazioni. Non c’è da meravigliarsi: nella sua storia, l’isola nipponica si è più volte isolata per timore dell’imperialismo dei paesi occidentali. Il primo isolamento avvenne durante lo shogunato di Tokugawa, quando il Giappone fece vuoto attorno a sé per oltre 220 anni, dal 1633 al 1853, finché l’armata americana di Matthew Perry forzò una nuova apertura al commercio occidentale. E così i giapponesi del tempo dovettero digerire la storia del pensiero occidentale, da Newton a Rousseau a Darwin, in un solo boccone e in un vortice di contaminazioni.
Nel 1892 poi, Herbert Spencer, filosofo britannico e teorico del darwinismo sociale, fu consultato dal governo giapponese del periodo Meiji per dare consiglio su come il paese potesse conservare la propria etnia e non essere inghiottito da altre potenze globali. Nelle sue lettere, che pregò di non pubblicare fino alla sua morte per evitare lo sdegno dei suoi connazionali, Spencer suggerì di vietare agli stranieri di detenere proprietà, negare permessi temporanei, proibire i matrimoni misti. I suoi consigli furono in gran parte messi in atto dal governo.
Oggi la situazione è capovolta: il Giappone ha più che mai bisogno di immigrazione. Nel 2018 si è registrato il più importante declino nella popolazione dagli anni sessanta: il tasso di natalità ai minimi storici e l’aspettativa media di vita più lunga del mondo creano un paese in cui, come riporta il Tokyo Times, si vendono più pannoloni per anziani che per neonati. E così il governo non è mai stato più deciso ad attrarre sull’isola quanti più stranieri possibili. Stanno aumentando gli studenti e apprendisti stranieri che si trasferiscono in Giappone anche solo temporaneamente. Per combattere il calo di manodopera, il governo giapponese ha recentemente approvato una legge sull’immigrazione che pare possa aprire la strada all’arrivo di centinaia di migliaia di operai.
Anche le Olimpiadi di Tokyo 2020 rappresenteranno un importante incubatore di questo processo – più di 200,000 candidature, di cui la metà internazionali, sono state inviate per diventare volontari nel periodo dei giochi olimpici. Stride in questo senso lo scandalo del 2017, che ha visto il Giappone accettare solo 20 delle 20,000 richieste d’asilo presentate in totale. Chissà se il Giappone riuscirà davvero a tradurre la sua tradizione di ospitalità, l’ideale dell’ “omotenashi”, in vera e propria accoglienza dello straniero. E chissà in che modo l’apertura a nuove miscele etniche e culturali trasformerà una città che per secoli si è dedicata a raggiungere e superare, chiudere e preservare.
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