Gig-economy: flessibilità versus sicurezza

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Inchiesta pubblicata sul Corriere della Sera, inserto Innovazione, il 22/02/2019

Siamo sempre di più: chi per necessità, chi per cavalcare l’onda di un mercato sempre più dinamico, abbracciamo lavori ‘non standard’. Contratti a tempo determinato, lavoro autonomo e occasionale. Flessibilità significa per molti libertà e schiavitù. Libertà di gestire il proprio tempo, schiavitù per la perdita di alcuni diritti fondamentali. Sarà mai possibile, tuttavia, soddisfare la promessa di una conciliazione tra flessibilità e sicurezza?

“Quando l’utilizzo di un contratto flessibile si traduce in una perdita di diritti, spesso non è tanto la tipologia contrattuale in sé il problema,” dice Angela Bruno, avvocato specializzato in employment presso Linklaters Milan, “ma è l’uso distorto che se ne fa.” Il problema è che contratti introdotti per ammortizzare gli effetti della crisi sono stati implementati in modo massiccio da grandi aziende proprio a scapito dei lavoratori.

Nel 2013 era saltato fuori che McDonald’s in Uk avesse assunto 83.000 dipendenti flessibili (il 90% del totale) con contratti a zero ore. Manteneva cioè un rapporto continuo con i suoi dipendenti ma senza obblighi di fornir loro un minimo di lavoro (e quindi di paga). Adottavano comportamenti simili altre catene di fast food come Burger King e Domino’s Pizza, la principale catena di farmacie Boots, e altri grandi compagnie come Sports Direct, Bupa, Cineworld. Le zero ore non significano solo instabilità economica ma anche sfruttamento. Secondo un report della Trade Union Congress, spesso i dipendenti sono avvertiti solo un’ora prima dell’inizio di un turno, e subiscono ripercussioni se lo rifiutano. Sono pagati un terzo rispetto ai lavoratori assunti sotto altri contratti e hanno il doppio delle possibilità di fare turni di notte. Le paghe misere, poi, li costringono a lavorare più ore – comportando due generi di povertà: quella del denaro e quella del tempo.

Un altro caso di distorsione contrattuale nel nome della ‘flessibilità’ è quello della gig-economy – quella dei riders di Uber e Deliveroo, o dei task di Amazon Turk e TaskRabbit, per cui dietro ad una tipologia di contratto apparentemente autonomo, si cela un rapporto di lavoro subordinato. Se queste opportunità inizialmente potevano essere considerati ‘lavoretti’, adesso per molti utenti rappresentano la principale fonte di sostentamento. La differenza è che qui il manager, invece che essere un persona in carne ed ossa, è un algoritmo. Nel 2018 sono state vinte due battaglie alla Corte d’Appello inglese: quella dei corrieri di Hermes e quella dei drivers di Uber che, pur essendo considerati lavoratori autonomi, hanno finalmente conquistato alcuni diritti dei lavoratori subordinati. Ferie e malattie pagate, e diritto al salario minimo nazionale. In Italia, che si è grosso modo allineata alla sentenza Uk, il numero di gig workers si stima tra i 700 mila e un milione. Le proteste italiane erano iniziate nel 2016, con i riders della compagnia di consegne a domicilio Foodora. “è evidente che questo gap normativo non può essere colmato dai giudici, o dalle compagnie che prestano assistenza ai riders,” commenta Bruno, “è piuttosto necessario un intervento del legislatore.”

Non è un caso che il focolaio delle proteste sia spesso Londra. In Uk, la disoccupazione è ai minimi – a gennaio si contava al 4%. Eppure è il lavoro autonomo a rappresentare due terzi dell’aumento di occupazione dell’ultimo trimestre. Tra gig economy, lavoro freelance, e outsourcing in diversi settori, i lavoratori autonomi sono saliti dai 3.3 milioni nel 2001 a quasi 5 milioni nel 2017. “Ciò potrebbe riflettere un crescente desiderio di flessibilità e indipendenza,” suggerisce Philip Landaw, giuslavorista presso lo studio londinese specializzato Landau Law, “oppure potrebbe essere che la tecnologia abbia creato più opportunità di lavoro autonomo e modelli di lavoro flessibili rispetto a prima,” aggiungendo che “i progressi del governo in questo settore rimangono lenti.”

In Italia, anche i contratti a tempo determinato rischiano adesso di portare con sé una nuova forma di precarietà. Il Decreto Dignità approvato a luglio dal Consiglio dei Ministri prevede una riduzione della durata massima dei contratti a tempo determinato a 24 mesi e la reintroduzione della causale – per cui il datore di lavoro deve giustificare il motivo per cui si è scelto un contratto a tempo determinato piuttosto che indeterminato. “In questo contesto, come già emerge dai primi dati Istat relativi all’ultimo trimestre 2018 e dai dati Inps relativi al periodo gennaio-novembre 2018, il rischio è che il contratto a tempo determinato si estingua, o che dia luogo ad un rinnovo che non ha speranze di sfociare in assunzione,” commenta Angela Bruno. Cioè il dipendente potrebbe essere assunto più volte per periodi inferiori ai 12 mesi (per sottrarsi all’obbligo della causale) per poi non essere più chiamato.

Si arriva poi alla flessibilità delle cosiddette élites. Quella per cui si può lavorare da casa per prendersi cura della famiglia, viaggiare, conciliare rapporti personali in esistenze sempre più geograficamente rarefatte. Anche in questi casi, però, flessibilità significa anche schiavitù. I confini tra lavoro e vita privata si sfuocano, e crescono le opportunità di fare regolarmente gli straordinari. Forse per sentirsi degni della flessibilità concessa, si finisce per lavorare la sera, in vacanza, in maternità. Polverizzando, anche qui, alcuni sacrosanti diritti.

Se finora ha sembrato assumere una connotazione negativa, la flessibilitlà dovrebbe anzi essere di per sé un diritto. Un report della Global Commission sul Futuro del Lavoro della International Labour Organisation suggerisce che non solo dovrebbero essere riconosciuti diritti universali dei lavoratori quali orari di lavoro accettabili, un salario adeguato, protezione contro malattie e pregiudizio, protezione di bambini, giovani, donne, e anziani. Ai lavoratori deve anche essere riconosciuta la flessibilità: cioè più tempo per sentirsi padroni delle proprie esistenze. Un esempio virtuoso è il modello di flessicurezza danese, che è stato ripreso tra gli obiettivi dell’Ue nella Strategia Europa 2020. In Danimarca non solo il tasso disoccupazione è al 3,8%, i datori di lavoro licenziano e assumono con facilità e il governo fornisce generosi sussidi alla disoccupazione. Ma soprattutto, le ore flessibili sono motivo di orgoglio nazionale. I lavoratori danesi, tra i più produttivi al mondo, alle quattro del pomeriggio sono al parco. Forse non è un caso che tale sistema prosperi nel secondo paese meno corrotto al mondo.

Fatichiamo a vedere la flessibilità in un’ottica di stabilità perché finora l’abbiamo vista barattata in cambio di qualche altro diritto fondamentale. Finché non sarà generosamente aggiunta ai nostri diritti senza comprometterli, sarà difficile interpretarla come una conquista.

© Riproduzione riservata

Photo credit: Ambrose Chua

Published by silvialazzaris

Italian writer based in the UK.

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