Photo credit: Jonny Caspari
Pubblicato sul Corriere della Sera, inserto Innovazione, il 25/05/2018
Nascono dalla miseria e muoiono nella miseria. Sono i nostri cellulari, e tutti i mezzi elettronici creati grazie ai minerali provenienti da zone di conflitto e abbandonati nei paesi in via di sviluppo – dove i controlli sono inesistenti e le leggi non proteggono i cittadini. Lo sappiamo e ignoriamo da tempo. Nuovi numeri, però, stanno generando una inquietante consapevolezza.
Quarantacinque, ad esempio, sono i milioni di tonnellate di spazzaturaelettronica, e-waste, che abbiamo generato nel mondo nel 2016, secondo un report dell’Università delle Nazioni Unite. Equivalgono al carico di tutti i camion che ci vorrebbero per riempire due corsie di una strada immaginaria che parte da Milano e arriva a Vancouver. La maggior parte dell’e-waste è costituita da piccola attrezzatura. Cellulari, caricabatterie, tablet, computer. Non c’è da stupirsi, considerato che al mondo ci sono più abbonamenti di cellulari che persone. Questo introduce il primo problema: la concorrenza capitalistica nel settore tecnologico e delle comunicazioni, che di continuo ci propone nuove versioni e modelli.
Cinquantacinque, invece, i miliardi di euro che il mondo ha perso nel 2016 per i materiali che avrebbe potuto riciclare. E che invece sono finiti nei nostri cassetti (perché non è chiaro cosa dovremmo farne) o che sotto forma di rottami sono stati mandati a intossicare intere comunità nei cosiddetti “dumping sites”. In Africa, Cina o India. Di tutto quello che produciamo a livello mondiale, ricicliamo infatti solo il 20%. E’ un’esperienza alienante guardare foto e video di Agbogbloshie in Ghana, Sangrampur in India, Guyiu in Cina. Centinaia di uomini, donne, bambini, incendiano la tecnologia, cercano a mani nude tra i rottami. Pensano di poter diventare ricchi, e invece muoiono intossicati dai metalli pesanti e dal fumo che li brucia.
In Europa, solo il 35% di spazzatura viene riciclato ogni anno. E’ la Nigeria che nel 2015 ha fatto il funerale a gran parte del restante 65%. Si è scoperto che viene inviato dentro veicoli usati a titolo di ‘oggetti personali’, poi introdotti nel paese attraverso i due porti principali di Lagos. I principali esportatori: Germania e Regno Unito, seguiti dal Belgio e dai Paesi Bassi. Anche l’Italia ha contribuito con le sue 260 tonnellate di televisori a tubo catodico, e con Genova tra i principali porti d’Europa per l’esportazione dei rottami elettronici. Tutto questo succede illegalmente: la Convenzione di Basilea e una corrispondente direttiva dell’UE vietano l’esportazione dei rifiuti elettronici verso paesi che hanno metodi di riciclaggio peggiori rispetto al proprio. “Il punto è che nessuno controlla. Se ad Amburgo c’è una sola persona dell’Ambientale, come fa a controllare tutti i dispositivi dentro tutte le macchine che partono?” puntualizza il Prof. Ruediger Kuher, uno degli autori del report dell’Università delle Nazioni Unite.
Tutto questo alimenta anche un altro problema, cioè lo sfruttamento dei minerali di zone di conflitto. Se non c’è modo di riciclare la tecnologia obsoleta, per costruire nuovi dispositivi bisogna andare a prendere nuovi minerali. E nelle regioni politicamente instabili, i minerali costano meno. Per capire perché sono chiamati “minerali di conflitto” basta prendere il caso del Congo. In Congo, il tantalio viene estratto come coltan, un composto di tantalio e niobio, e spedito in un viaggio internazionale che inizia nelle miniere africane e si muove attraverso fonderie nei Balcani, in Europa e in Asia. Fino all’inizio degli anni 2000, e in qualche modo fino ad oggi, molto del tantalio che veniva prodotto era minato in Australia, Brasile e Cina. Però nel 2000, quando la popolarità della nuova Play Station 2 ha causato un aumento spaventoso della domanda di condensatori di tantalio, c’è stato bisogno di trovare nuove risorse. In Congo costava poco, per l’instabilità causata dalla guerra civile causata dal colpo di stato di Laurent-Desire Kabila nel 1996. I militanti si erano approfittati del caos per sequestrare terre ricche di coltan e metterci a lavorare gli stessi contadini, donne e bambini, a cui erano state confiscate. Il prezzo era ridotto perché i lavoratori erano pagati una miseria. Alle aziende di produzione conveniva, a noi consumatori conveniva. Tanto che nel 2014 il Congo e il Rwanda producevano quasi il 70% della produzione globale di tantalio.
Obama tentò di mettere una toppa quando, nel 2010, approvò la sezione 1502 della legge Dodd-Frank, che da allora richiede alle imprese con sede negli Stati Uniti di dichiarare da dove arrivano i materiali utilizzati per i propri prodotti. La legge fu molto criticata. Molti ritennero che portò più danni che benefici: molti dei lavoratori persero l’unica fonte di sostentamento, mentre i militanti trovarono nuove vie per i loro traffici. Questo caso evidenzia il paradosso almeno tanto quanto il discorso del diciottenne lavoratore di Agbloboshie, che pregò il giornalista del Guardian per favore di continuare a mandare laspazzatura in Ghana. Aggiungendo: “So che questa non è la vita perfetta, ma ne abbiamo bisogno.”
Anche l’Europa introdurrà presto una legge simile alla Dodd-Frank. Entrerà in vigore nel 2021, con la grossa differenza rispetto agli USA che, invece che i produttori finali, saranno gli importatori stessi a dover dichiara la provenienza dei minerali. “Piazzare questo controllo obbligatorio a metà della catena aiuterà a creare un quadro migliore delle varie provenienze” dice Karen Woody, Professoressa in Business Law and Ethics all’Indiana University ed esperta nella legislazione sui minerali di conflitto. Però non ci saranno vere e proprie sanzioni o penalità. “Lo scopo per ora è creare maggiore consapevolezza” dice Woody, “le compagnie, ad esempio, saranno incentivate a dichiarare che i loro materiali sono selezionati eticamente.”
Ed ecco l’ultimo fattore, cioè noi. Noi decidiamo come si muove il mercato. Le ragioni per cui scegliamo un certo brand sono importanti. E allora ben venga il Fairphone, nato nel 2010 in Olanda come primo tentativo di produrre uno smartphone etico. L’unico problema è che costa 529 euro e non tiene la concorrenza. Ma ci dimostra che possiamo chiedere di più ai giganti del tech. “Perché non compriamo semplicemente il servizio?” si chiede Kuher. “La società ci chiederebbe indietro il vecchio modello e ci manderebbe, appena esce, l’ultimo in cambio del nostro.” Possiamo chiedere un sistema virtuoso e circolare di riciclo. Un sistema per cui è nostro diritto (e dovere) che la tecnologia, invece che nascere e morire, si rinnovi.
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