Photo credit: Piotr Makowski
Pubblicato sul Corriere della Sera, inserto Innovazione, il 26/10/2017
Il “cavallo troiano dell’apocalisse”: così lo ha descritto al telefono il sociologo della cultura digitale Derrick de Kerckhove. Un nome potente e carico di aspettative per un microchip delle dimensioni di un chicco di riso che, ben lontano dalla mitologia, si chiama RFID, identificazione a radiofrequenza. Il microchip RFID è associato ad un codice identificativo, e quando si trova davanti a un lettore reagisce allo stesso modo di una carta di pagamento contactless. L’unica differenza è che la carta si tiene in tasca, mentre il chip è impiantato direttamente sottopelle nello spazio del metacarpo tra pollice e indice. Gli sviluppatori del chip, a Biohax International, stanno tentando eliminare il ponte materiale (carte, tessere, generatori di codici) tra mondo digitale e mondo reale, con lo scopo di fondere le due realtà in modo più fluido.
Ad oggi, il chip è stato introdotto come opzione volontaria per i dipendenti di alcune aziende in Europa e negli Stati Uniti. In agosto, la compagnia del Wisconsin Three Square Market ha visto più di 50 su 80 dipendenti abbracciare questa nuova tecnologia in una grande festa di battesimi cyborg. Ma non è affatto una novità: lo spazio coworking svedese Epicenter l’ha introdotto più di due anni fa, e decine di migliaia di entusiasti digitali nel mondo lo stanno utilizzando già da qualche anno. La vera novità riguarda il progresso nelle applicazioni: in Svezia, ad esempio, la compagnia ferroviaria nazionale ha iniziato a riconoscerla come alternativa alla tessera di abbonamento del treno. L’idea generale è che il chip potrebbe sostituire tessere, chiavi, documenti. Niente più tasche dei pantaloni. Potremo indossare costantemente tutti i nostri accessi e possessi, senza preoccuparci di ricordarli, perderli, o essere derubati. Il dottor Arthur Saniotis, esperto in biologia evolutiva in rapporto alla tecnologia all’Università di Adelaide in Australia, suggerisce che i microchip potrebbero memorizzare dati sulla nostra salute, ad esempio il gruppo sanguigno e la storia clinica. E in un futuro potrebbero monitorare i nostri processi metabolici e salvare molte vite. “Potrebbero fare diagnosi precoci, ad esempio di tumori.” E se i tumori, invece, li causassero? “Beh, noi sappiamo che al corpo non piace essere invaso,” risponde Saniotis. Aggiunge però che la maggior parte dei chip è abbastanza sicura, e questa sicurezza potrà essere migliorata nel tempo dalla nanotecnologia. “Se hai un microchip molto molto piccolo, della dimensione di una molecola, non ti causerà troppo danno.” Chiaramente, però, ogni cosa che inseriamo nel nostro corpo causa cambiamenti micro-evoluzionistici. E delle potenziali conseguenze, al momento, non sappiamo nulla.
Qualcuno potrebbe domandarsi se questi vantaggi siano davvero una sua priorità. Qualcuno forse non rinuncerebbe all’idea di potersi ritagliare uno spazio esterno al mondo digitale in cui già vive la maggior parte delle sue giornate. Perché in questo momento, forse, abbiamo già grosse difficoltà a separarci dai nostri cellulari. Ma sappiamo che, almeno in teoria, possiamo rinunciare ad essere costantemente rintracciabili e disponibili in un mondo virtuale. E questa idea di avere un chicco di riso sotto la cute a ricordarci che siamo sempre connessi può essere fastidiosa e inquietante. Patrick Mesterton, CEO della società svedese Epicenter, racconta che lui stesso, prima di decidere di impiantarsi un chip, era piuttosto scettico. “Mi chiedevo quale fosse il proposito,” dice “ma una volta che l’ho fatto, ha semplificato il mio modo di muovermi nello spazio. Per me è veramente un discorso di convenienza e comodità.” E se ad alcuni di noi piacesse ancora complicarsi la vita? Nessun problema: l’integrità personale è un diritto sacrosanto ad Epicenter, e scegliere di indossare un chip è una scelta assolutamente volontaria dei membri. Mesterton ci tiene anche a sottolineare che il proprietario legale del chip è l’individuo che lo indossa. E la questione del monitoraggio? Se la compagnia volesse monitorare qualcuno potrebbe già farlo in molti altri modi, risponde secco. Per di più i chip allo stato attuale non consentono la geolocalizzazione. E quando il dipendente smette di lavorare per la compagnia, il chip viene eliminato dal sistema di riconoscimento. “Chiaramente non vogliamo che qualcuno che non è più membro abbia accesso alle stesse aree.”
Per ora va tutto bene. Ma i problemi relativi alla sicurezza e alla privacy diventeranno tanto più complessi quanto più se ne potenzieranno le applicazioni. Ad esempio, potremmo chiederci cosa succederebbe se sempre più persone iniziassero ad usare chip, rendendoli, come i cellulari, un’esigenza sociale. Dovremmo valutare la quesitone del consenso nei casi in cui un datore di lavoro desse l’impressione di preferire i candidati bendisposti all’idea, e se mai banche e compagnie di assicurazione presentassero accordi più vantaggiosi a chi li indossa. L’esperta in sociologia del digitale Kate Orton-Johnson suggerisce che, pur adulti e consenzienti, potremmo sentire che non abbiamo molta scelta. Oppure potremmo acconsentire sotto certe condizioni che poi cambiano, generando problemi di sicurezza e privacy. “Lo vedi con i social media,” spiega, “i termini e le condizioni sono costantemente aggiornati. Essere sempre consapevoli degli aggiornamenti su come i nostri dati personali vengono trattati sarebbe di per sé un lavoro a tempo pieno.” Senza contare che, se consideriamo scenari più estremi, i nostri dati potrebbero essere hackerati e la nostra intera identità digitale rubata.
E’ proprio considerando queste problematiche che salta fuori la questione del cavallo troiano. E’ vero che in questo momento i chip non consentono di essere geo-localizzati e che ci concedono ancora una privacy simile a quella di cui godiamo con gli strumenti tecnologici di cui già ci serviamo. E però, per De Kerckhove, questa è l’entrata, l’ingresso, per lo sviluppo futuro di una tecnologia molto più potente. E che cosa c’entra l’apocalisse? L’apocalisse non è la fine del mondo, piuttosto è una rivelazione. La rivelazione che la privacy non è più prioritaria. E questo vale in particolar modo per i giovani, inseriti fin da subito in un contesto sociale per lo più pubblico. La distinzione tra pubblico e privato si è sempre più assottigliata. Il nostro modo di comprendere la privacy e la nostra dimensione sociale sono cambiati, basta farsi un giro sui social network per rendersene conto. Non accogliamo gli altri a guardare dentro di noi, piuttosto rovesciamo direttamente le nostre interiora fuori. Viviamo nel digitale e il digitale vive in noi, aiutandoci a calcolare, a ricordare, a tradurci istantaneamente in altre lingue. In poche parole, a pensare. Tutto questo al prezzo di pressanti pretese sociali. Che forse saranno percepite sempre meno pressanti con il passare delle generazioni. Secondo de Kerckhove, se anche questa storia dei microchip fosse un culto temporaneo, rappresenterebbe “un debole segnale dal futuro”: l’ascesa di un sistema della trasparenza che rimpiazzerà il sistema dell’opacità in cui abbiamo vissuto per molto tempo, che richiederà una ridefinizione delle nostre basi etiche. “Probabilmente né io né te vorremo farne esperienza, perché abbiamo ancora un forte senso di sé e un’individualità da proteggere. Ma posso anche capire qualcuno tra le future generazioni che dirà: e chi se ne importa di quello?”
E se fossimo tentati di rispondere che ci stiamo tormentando troppo per un chicco di riso che al massimo paga un cappuccino, possiamo ricordarci che i troiani, dentro le mura, pensavano di accogliere solo un cavallo.
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