Mi chiamo Emma. Almeno, credo. Mi pare proprio di sì, comunque. Voglio dire, Emma è il mio nome. Sì. Nella vita ho fatto tante cose, e me le ricordo tutte per bene. Ho amato tanto un uomo, anzi due, di un amore che mi ha come trafitta. Ricordo ancora quando fui trafitta, come fosse ora. Sono rimasta senza fiato, ogni volta, mentre la luce penetrava dentro la ferita e mi entrava dentro. Il mio cuore si è fermato, e poi ha iniziato a battere fortissimo. Dal mio amore sono nati due figli. No, volevo dire tre figli. E poi dai figli sono nati i nipoti. E ho guardato il mio amore diramarsi e dare vita a tutti i miracoli che ora vivono perché quel giorno, a quell’ora, di tanti anni fa, l’amore mi ha trafitta. Li ho fatti giocare e li ho osservati guardare il mondo e dire così tante verità così vere e così piccole. Le piccole verità dei miei piccoli nipoti che con i loro occhi, come lenti di ingrandimento, incenerivano ogni pregiudizio che incontravano.
Ricordo che macchiavo sempre la tovaglia con il caffè. Usciva una gocciolina coraggiosa dalla moca che gocciolava fino a raggiungere il bordo e, se se la sentiva, dopo un po’ di indecisione, faceva un salto sulla tovaglia. Mio marito si divertiva di questa cosa. Lo divertivano tutte le cose che in me mostravano incapacità di ragionamento induttivo. Mio figlio un giorno aveva fatto dei cerchietti con la penna intorno a tutte le macchie di caffè che non andavano più via dalla tovaglia bianca. Io mi ero arrabbiata molto perché era come se sottolineasse con ogni cerchietto ognuno dei miei errori, e a quel momento ero molto suscettibile agli errori che avevo fatto nella mia vita. Mio marito si era messo a ridere. Ma forse non era mia figlio, era mia figlia. Altrimenti non mi sarei arrabbiata così.
Ora sono in questa specie di residence e sto per andare a giocare a carte con le mie amiche. Una di loro oggi si è messa un grembiule che la fa sembrare tanto un’infermiera. A me questa moda di vestirsi da infermiere non piace proprio. Non che la moda mi sia mai interessata. Io compravo solo quello che mi piaceva e che mi faceva sentire me stessa e il risultato a volte era un po’ stravagante. Ne andavo orgogliosa comunque, perché mi sentivo io. Ora addosso ho questa specie di camicetta che non mi piace proprio per niente e non ho capito chi me l’ha messa.
Ah già, sto facendo fisioterapia. Mi sono rotta una costola…no, volevo dire rotula. Sono in una specie di centro di riabilitazione. E’ triste e tedioso come se ogni giorno fosse domenica. Non mi viene mai a trovare nessuno. Nessuno dei miei figli. Nessuno delle mie amiche. C’è soltanto una sconosciuta che ho conosciuto l’altro giorno alle poste che mi si è piazzata in camera e non se ne vuole più andare. Gliel’ho detto più volte che non mi faceva piacere la sua presenza. Sì, che insomma mi irritava. Ma lei niente. Non se ne va. Penso che voglia una referenza per andare a studiare musica in Inghilterra. Glielo dovrei dire che non può andare da nessuna parte perché l’ho sentita suonare e ho già capito che è una di quelli ambiziosi del miracolo dal cielo. Bella ambizione!
Erano belli i tempi in cui quello che creavo riempiva le orecchie polacche più raffinate. Mi ricordo ancora quelle tende di un blu intenso quasi accecante. Brusio indistinto, vociare gioviale. Le tende erano la linea di confine. Tra rilassatezza e tensione, tra mani asciutte e mani sudate, coloriti normali e paonazzi, pupille normali e pupille dilatate. Linea di confine tra pensieri lenti e frenetici. Vestiti colorati e completi neri. E poi, dalle mani, dai piedi, dagli occhi, da tutto il nostro corpo, sarebbe uscita la musica. La breccia, il punto di congiunzione che faceva cadere la linea di confine delle tende. Un attimo prima c’era quel silenzio, così rispettoso e irriverente insieme. Carico di aspettative. Quel silenzio che rispetta l’esecutore e insieme gli chiede di riempire la stanza per essere intrattenuto.
“Hai sentito anche tu questo rumore?” “No, mamma, che rumore?”. “Rumore di un violino scordato che prova un La”. “No, mamma, io non lo sento”. Non capisco perché questa signora continua a chiamarmi mamma. Mi fa veramente innervosire. L’ho incontrata l’altro giorno alle poste e da allora non mi si scolla più di dosso. Forse vuole vendermi qualcosa. E’ una bella giornata oggi. “Possiamo andare a giocare a tennis?” “Ti sei rotta il femore mamma, non puoi giocare a tennis”. Ah, già. ho fatto tante cose nella mia vita, e me le ricordo tutte per bene. E’ solo che ogni tanto mi dimentico cosa è successo recentemente. Faccio un po’ di confusione. Credo che recentemente mi sia capitato di pagare la stessa bolletta tre volte.
Solo che poi le persone non mi credono quando non faccio confusione. L’altra settimana tutti i giorni alla stessa ora mi sono venuti i ladri in casa e la polizia non voleva venire a controllare. Mi hanno portato via tutto, piano piano. Non sono venuti nella mia stanza solo perché sapevano che ero lì. Io mi sono nascosta dietro la porta con una statuetta che aveva scolpito mio zio, nel caso fossero entrati. Nemmeno i miei figli mi credono, continuano a dire che tutte le cose preziose le hanno loro, nelle loro casseforti. Ma io ho avuto i ladri in casa! Lo saprò quello che ho visto, eh! Un po’ smemorata sì, ma scema no. Scema proprio no, mai! C’è un cane che abbaia in continuazione. E’ molto fastidioso. E’ perché c’è un canile qui al piano terra. Sono tutti buoni. Però ce n’è soltanto uno che abbaia forte. Chiedo sempre di farmi portare al canile ma non mi ci portano mai. Non sono mai stata a un canile. E quello che nella vita non hai fatto, non lo hai fatto. Ora potrei andare al canile e invece sono sempre chiusa in questa stanza. Peggio di una canzone di cattivo gusto. Mi dà il nervoso ancora di più di vedere le persone commuoversi con musica immorale che tocca le loro note interiori più deboli e vigliacche, e le rende fiacche.
“Mamma, vuoi suonare un po’ il pianoforte?”. “E’ il mio turno?” “Sì, è il suo turno. Cosa porta oggi?”. Mi sono preparata molto bene. Mi sento veramente pronta. Mi sono allenata ogni giorno della mia vita. Ho dedicato ogni momento a questo. Ogni giorno seduta fino a che la schiena non faceva male, le mani non bruciavano e il mio didietro si addormentava. Fino a che gli occhi non erano rossi e stanchi. Mi sono allenata fino a che le mie amicizie non abitavano più intorno a me. Fino a che non mi riconoscevano più per strada, o facevano finta di non riconoscermi. Fino a che persone che invece non mi conoscevano, mi fermavano per strada. Devo ammettere che sono diventata una brava pianista. La sono diventata perché ho imparato a conoscere me stessa. Con disciplina mi sono domata. Come quando un cavallo si ferma a mangiare l’erba, una parte di me reagiva e si ribellava. Si sottraeva. Si alzava dallo sgabello, beveva caffè, restava a chiacchierare per ore, leggeva libri. E allora ho dovuto imparare le mie debolezze e darmi con fantasia delle motivazioni per rimanere seduta. Incollata allo sgabello, ammanettata senza manette.
Ora addirittura mi accompagnano al pianoforte trasportandomi di peso a sedere. Però, sono aumentate le riverenze nei confronti dei vecchi pianisti! Devo dire che i passi per raggiungere il pianoforte però mi hanno sempre dato il tempo di prepararmi. Ma ora non c’è più niente che mi spaventi. Ho fatto il mio tempo. Ogni esibizione è stata come uno strato di pelle in più. Mi sono indurita. Più forte, più assertiva, con un gusto più sottile per la gioia, con una lingua più delicata per le cose buone e con la lingua più tagliente verso le maldicenze, la vigliaccheria e l’avarizia.
“Stasera porto il concerto no. 2 di Rachmaninoff” “Prego”. Eccoli. I miei tasti. Il bianco e il nero. Silenzio. E inizio. Non devo sbagliare neanche una nota, neanche una cadenza, non devo sbavare nulla, non devo strascicare il ritmo. Perché si può ingannare chiunque soltanto andando avanti mostrandosi imperturbabili, ma con la giuria non si scampa. Loro conoscono ogni nota. Da sola con me stessa. E con la mia musica. Che a volte riesce bene, a volte è pietosa. Se è bella, è mia. Se è pietosa è comunque mia. La musica è una responsabilità. E concentrazione. Che significa essere pronta, essere preparata per la nota successiva, per la battuta successiva, in ogni momento. In certi momenti ti rendi conto che la tua mano sta andando già nella posizione in cui subito dopo sarà utile.
Concentrazione porta consapevolezza. Consapevolezza di te in uno stato di trance. Non puoi pensare ad altro che al risultato. Alla tua creazione. Così volatile, immediata, veloce. Diventi consapevole del tuo corpo, asservito completamente all’esecuzione. Consapevole del tuo corpo come un totale. Il tuo respiro è fondamentale tanto quanto le tue mani.
Le mie mani volano sui tasti, e colorano il pezzo, in un modo in cui lo coloro solo io. Perché il bello di quest’arte è che richiede rispetto. Devi sottostare umilmente allo spartito, come se i bordi dentro cui puoi stare fossero disegnati di nero. Ma la carta è bianca, e allora puoi colorare dentro stando nei bordi. E i colori che scegli sono tuoi, e rendono la tua esecuzione diversa da tutte quelle degli altri, e da tutte le altre tue. Ogni esecuzione è unica.
Mi sento così giovane, forte, energica, piena. Ma non capisco. C’è anche questa senilità. Sono incastrata nel posto sbagliato. Nel corpo sbagliato. Cosa mi sta succedendo? Dove sono? Dove sono? Dove sono? Cosa mi succede?
Aspetta. Davanti a me non c’è nessun pianoforte a coda. Nessuna tenda blu. Nessuna giuria. Sto suonando un pianoforte a muro appoggiato a una parete ricoperta di brutta carta da parati. E’ anche un po’ scordato. Mi fa malissimo la gamba. Sono in sedia a rotelle. Il mio piede non funziona sul pedale. Sento un leggero tremore nella mia mano. Cosa mi sta succedendo? Dove sono?
Oddio. Ora ricordo. Le prime dimenticanze, le visite dei medici, l’invalidità, la mia prima caduta, la badante. Ricordo, adesso! Voglio uscire di qui. Ora! Da questo corpo stanco, da questo corpo flaccido e da questo cervello che non funziona. Io non sono questa! Io sono un’altra! Sono troppo stanca per continuare a concentrarmi. Pensare è troppo doloroso. Voglio soltanto suonare, o morire.
“Infermiera, io ho finito”. La signora delle poste mi lascia andare dolcemente sul cuscino. Non c’è nessun pianoforte in tutta la stanza. Stavo suonando? Ma il suo viso è vicino e riesco a vederlo nei dettagli. Il suo naso. Glielo tocco. Con l’altra mano mi viene istintivo toccare il mio. E’ lo stesso. La guardo negli occhi. Con stupore mi accorgo che è bellissima. “Sei bellissima, amore mio”. Il suo sguardo. Quello sguardo. Inizia a baciarmi sulla fronte senza mai fermarsi. Capisco. L’ho riconosciuta. Ma tutto questo fa troppo male. Fa più male di quanto possa sopportare.
“Basta, basta così ti prego”. Mi dà un ultimo bacio e si tira indietro. Mi guarda negli occhi da vicino. Chiudo i miei, perché è troppo doloroso guardare dentro quello sguardo. Così mio, così non mio. L’ho ignorato così tante volte per i miei tasti. Ora che potrei guardarla negli occhi di più, il mio cervello beffardo riconosce i tasti e non lei.
Riapro gli occhi. Una signora che ho incontrato qualche giorno fa dalle poste e che non mi si scolla più di dosso mi sta guardando da vicino in modo inquietante. Dio, come mi irrita questa tizia.
“Mi scusi, non vorrei essere scortese. Ma cosa vuole lei da me, esattamente?”
Brava, bellissimo pezzo